L’esperienza di Ivrea dall’applicazione di un modello inclusivo nei confronti delle persone con declino cognitivo alla luce del PNRR, alla riflessione sul ruolo degli infermieri nel territorio.
Diventare Comunità Amiche delle persone con Demenza significa rendere la cittadinanza consapevole e accogliente nei riguardi delle persone che presentano decadimento cognitivo e dei loro familiari, in ogni suo aspetto e ad ogni livello. Il progetto delle DFC, portato avanti dalla Federazione Alzheimer Italia, oggi annovera 35 realtà Amiche delle Persone con Demenza ed è un modello archetipico che vanta un protocollo studiato e messo a punto insieme agli organi amministrativi e istituzionali. Tuttavia il progetto, prima di essere un modello organizzativo, va inteso come la proposta di un cambiamento culturale tout court.
Lo ha detto Mario Possenti (segretario della Federazione Alzheimer Italia) in occasione del convegno del 19 e 20 novembre tenutosi a Ivrea e organizzato dal polo formativo Officina H – “Dementia Friendly Community: un percorso per comunità inclusive e resilienti alle malattie della sfera cognitiva in linea con gli indirizzi del PNRR” – specificando la portata di questa piccola rivoluzione copernicana portata avanti dal lavoro della Federazione.
“Non abbiamo chiesto alla comunità cosa potesse fare per le persone con demenza, ma abbiamo chiesto alle persone con demenza che cosa potesse fare la comunità per loro”. Un cambiamento di paradigma che ha risvolti concreti su ogni aspetto sociale.
Se, continua il segretario, i dati ci inducono a prendere seriamente in considerazione la demenza come problema sociale in netto aumento – con le conseguenze d’assistenza che comporta – allora dobbiamo agire sui livelli di consapevolezza delle comunità, dei servizi e degli apparati istituzionali.
L’idea è semplice e allo stesso tempo difficilmente radicabile nella cultura: la demenza non coinvolge soltanto chi ne è ammalato, ma la società tutta, per questo è importante non frammentare le risposte di cura e adeguare l’assetto della cittadinanza per sostenere le persone e accoglierle.
Il modello delle DFC è stato importato dalla Britannia e stato adattato alla realtà italiana tenendo in considerazione la sua peculiarità e anche la sua disomogeneità interna. L’Italia, infatti, ospita realtà urbane di grandi dimensioni e una costellazione di borghi e di realtà rurali e montane profondamente diverse dai grandi poli urbani. Per questa ragione il modello è stato studiato in modo flessibile per essere scalabile in ogni contesto.
Esistono certamente dei passaggi standard, ma c’è certamente un lavoro unico, pensato ad hoc, che ogni comunità può e deve fare. Innanzitutto, ci dice Possenti, è importante lavorare sulla visione e chiedere alla comunità in questione in che modo vuole diventare inclusiva con le persone con demenza. Una volta chiarificata la visione, si lavora con una metodologia a ritroso che consente di fissare obiettivi concreti e di individuare le risorse disponibili per perseguirli. In tutti questi passaggi si lavora con flessibilità e unicità, ma sempre tenendo conto dei risultati (outcomes) e sempre monitorando ogni fase in fieri. Questo rende il lavoro meglio orientato alla vision, permette di prendere consapevolezza sugli imprevisti e consente di creare un percorso di crescita a piccoli step. Perché quello di diventare DFC non è un progetto che ha una fine, ma una scelta che continua nel tempo.
Ma quali sono i bisogni delle persone con demenza e come può la comunità incontrarli? Intanto, dice Possenti, queste persone vivono limitazioni che riguardano l’insicurezza, hanno difficoltà a spostarsi, oltre al bisogno di assistenza sanitaria. Una comunità amica è anche quella che aiuta a intercettare subito il problema del decadimento cognitivo prestando attenzione ai comportamenti delle persone e non lasciandole sole.
Come accennato, c’è differenza nell’organizzare un piccolo comune o una grande città e renderla una DFC. Per quanto riguarda le realtà rurali sulle quali calare il modello, ne esistono di tre ambiti: le aree rurali con agricoltura intensiva e specializzata, le aree intermedie e le aree rurali con problemi di sviluppo. Ci sono caratteristiche peculiari per ogni tipologia di realtà.
Queste piccole comunità invecchiano sempre di più perché non c’è un ricambio generazionale. Ci sono difficoltà innegabili: l’accesso ai servizi durante tutto il percorso di malattia e la difficoltà di reperire specialisti. Ci sono persone sole che non hanno nemmeno una diagnosi e dunque che non hanno i supporti di cui hanno bisogno. Ciononostante, in questi contesti esistono molti lati positivi che mancano ai grandi centri urbani: le piccole comunità vantano relazioni e legami forti e hanno spesso un rapporto diretto con le istituzioni. Sovente capita infatti che siano proprio le amministrazioni comunali a chiedere di intraprendere un percorso di DFC.
Non bisogna pensare tuttavia che una Dementia Friendly Community rurale sia meglio di una cittadina, ci racconta Possenti: sono storie a sé e non esiste una discrasia fra le due realtà, ma solo percorsi differenti. La matrice comune molto importante è la relazione nel proprio territorio e col tessuto sociosanitario. Abbiamo costruito un PDTA col Ministero della Salute che si chiama “Linee di indirizzo Nazionali sui Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali per le demenze”. Questo documento pone le basi per andare oltre la diagnosi e per accedere a tutte le iniziative territoriali. È uno strumento che deve essere varato dalle regioni e che ci auguriamo , dice Possenti, sia attivato presto da tutte. E continua: ci piacerebbe creare un supporto per le persone con demenza che sia composto da una rete. Ogni anello dovrebbe essere consapevole di come accogliere la persona. Nella rete ci sono le RSA, l’hospice, le associazioni, le farmacie ecc. “Dentro questa rete di servizi non ho messo le comunità – dice Possenti – perché non dovrebbero essere semplicemente un anello della catena, ma un oceano dentro il quale si muovono tutti i componenti. Le comunità siamo noi”.
Il modello spiegato dal segretario ci riporta a Ivrea, città della Val Chiusella che ha intrapreso da alcuni anni il percorso di Dementia Friendly Community, grazie al lavoro dell’Associazione “La Piazzetta” coniugato a quello di altri attori, tra cui l’Officina H, il polo formativo e universitario che ospita al suo interno la sede dell’Associazione.
“Il polo nasce dal principio di accoglienza e di scambio di saperi”, ci dice Diego Targhetta Dur (Direttore del Polo Formativo e Coordinatore Corso di Laurea in Infermieristica sede TO4 Ivrea) e continua: “volevamo contaminarci con la comunità, accogliendola al nostro interno e uscendo allo stesso tempo verso di lei per incontrare la popolazione”.
Uno dei principi del polo è la mutualità e l’idea di un welfare che integri servizi e comunità. Molti sono stati i progetti formativi portati avanti con gli studenti di Infermieristica dell’Università di Torino, tra cui “La.Val”, un’inizitiva che coinvolge i comuni della Val Chiusella per creare “un ecosistema” fatto di multidisciplinarietà, di integrazione comunitaria e di ascolto reciproco. Gli studenti di infermieristica sono partiti dialogando coi comuni e con le associazioni per tessere reti in questo territorio e per creare un modello interconnesso che possa essere esportabile in altri luoghi.
Dal fermento culturale creato in questo luogo, dall’impegno dei professionisti e dalla consapevolezza rispetto alle scarse risposte nell’ambito della demenza, nasce così l’Associazione “La Piazzetta”, che prende il nome proprio dal luogo in cui si affaccia la sede: un luogo di incontro fra persone, interessi e attività.
Ce ne hanno parlato Manuela Bolognesi (Presidente Associazione Alzheimer La piazzetta Ivrea) e Massimo Savio (Segretario Associazione Alzheimer La piazzetta Ivrea – Coordinatore interdistrettuale ASLTO4). Quest’ultimo ricorda la formazione dell’Associazione nel 2016, dopo lunghi anni di esperienza nelle RSA e nella cura di persone con demenza.
“Di fronte alla gestione delle cronicità i professionisti si sono trovati spaesati, perché era ben diverso dalla gestione dell’acuzie. Le prime esperienze con la demenza ci hanno fatto capire che era necessario fare qualcosa”, ci racconta Massimo Savio. “E allora noi professionisti abbiamo iniziato osservando. Abbiamo studiato per 5 anni i comportamenti delle persone con demenza, dopo aver creato un nucleo che le accogliesse insieme”.
L’impegno in questo senso li ha portati alla consapevolezza che si dovesse lavorare sull’organizzazione e che si dovessero raccogliere e analizzare i dati, per mettere a punto risposte concrete rispetto alla demenza. Inoltre, che fosse necessario coinvolgere e formare i familiari. Ecco perché hanno organizzato i Caffè Alzheimer organizzati e intrapreso percorsi strutturati di formazione coi familiari insieme alla “Bottega del Possibile”.
Proprio dall’insieme di questi sforzi diffusi viene fuori nel 2018 l’adesione al modello DFC che conta sul coinvolgimento delle istituzioni, dell’università, della curia, delle associazioni.
Anche in tempi di Covid l’Associazione “La piazzetta” ha sempre ascoltato i caregiver mantenendo un Caffè Alzheimer online e introducendo una linea telefonica, il “Pronto Alzheimer”, continuando a spendersi sempre per mantenere una presenza attiva e per promuovere un’inclusione delle persone con demenza in tutto il territorio.
Ed è proprio dalla parola “territorio” – il vero fil rouge di tutto l’evento e il collante di ogni intervento – che si inserisce la riflessione di Massimiliano Sciretti, (Consigliere Comitato Centrale FNOPI, Federazione Nazionale Ordine delle Professioni Infermieristiche) che ci introduce al tema dei cambiamenti proposti dal PNRR e a quello del ruolo degli infermieri nello scenario futuro e nella presa in carico della non autosufficienza e della fragilità.
“Nei prossimi 5 anni dovremo affrontare le sfide del PNRR. La missione 6 del piano parla la lingua degli infermieri perché si parla del futuro territorio così come dovrebbe essere disegnato”.
Se la pandemia ha evidenziato il bisogno di rendere i servizi più vicini al territorio e ha fatto emergere non solo la generale inadempienza in questo senso, ma la grave disomogeneità fra i territori, col PNRR non abbiamo più modo di rimandare un cambiamento.
Dobbiamo lavorare per essere all’altezza delle sfide poste dal piano e varare riforme che vertano sulla digitalizzazione, sulla telesalute (più che sulla telemedicina che si limita a indicare interventi di tipo farmacologico).
Il PNRR prevede la costituzione di Case di Comunità e di COT (centrali operative territoriali) ma impone anche di riflettere sul ruolo e sul significato di certe figure professionali. Il focus è qui diretto alla figura dell’infermiere e alla centralità che avrà nei territori, configurandosi come infermiere di comunità. Diventa quindi centrale, come suggeriva un’infermiera dal pubblico, ridefinire i profili di questa professione e chiarificare le sue responsabilità a seconda del luogo in cui opera (ospedale, RSA, territorio).
“Non si può chiedere all’infermiere di effettuare la diagnostica, ma di svolgere il suo mestiere, cioè intervenire sulla cura del paziente e di intercettare un bisogno sanitario o sociale se presente”, ci dice l’infermiera, sottolineando l’importanza del ruolo di snodo dell’infermiere nell’ individuare i percorsi di cura insieme agli specialisti (medici, assistenti sociali). L’infermiere che nasce col PNRR è un professionista formato, specialista per aree di competenza, che si occupa del coordinamento dei servizi, della gestione e del monitoraggio dell’assistenza alla persona, ci dice infatti Sciretti. E continua: “abbiamo questioni da porre e un paradigma da cambiare. Dobbiamo cambiare approcci in termini di risposta trasformando l’assistenza sanitaria in ‘connected care/health’, cioè in risposta connessa, integrata e basata sulla comunità”.
Infine, ricorda, non possiamo dimenticare il problema delle RSA che emerge in questo quadro.
La missione 5 del PNRR fa leva sull’Inclusione e la Coesione e prevede la riforma degli interventi in favore degli anziani non autosufficienti, l’individuazione dei livelli essenziali delle prestazioni per anziani non autosufficienti, la riconversione delle RSA in gruppi di appartamenti autonomi, la riforma sulla normativa della disabilità. Tutte questioni che oggi, a partire dagli apparati istituzionali, non possiamo ignorare.
A ricordarci come nella partita del cambiamento socio-sanitario proposto dal PNRR anche le singole amministrazioni abbiano un ruolo centrale è poi Marco Bussone (Presidente UNCEM – Unione nazionale dei Comuni, delle Comunità e degli Enti montani). Come presidente di un’associazione che riunisce i comuni, sottolinea non solo l’importanza degli interventi degli amministratori locali nel sostegno ai servizi socio-sanitari, ma enfatizza il bisogno che questi hanno di non essere lasciati soli. In un momento politico e istituzionale come questo, pieno di sfide e crisi di natura economica, sanitaria, ecologica, se i sindaci non vengono aiutati, il sistema degli amministratori locali verrà spazzato via e con questo anche il sostegno che possono e devono dare ai cittadini.
Attorno a una rigenerazione delle comunità, nessuno deve essere lasciato indietro, dice Bussone ricordando le parole di Papa Francesco. Aiutare gli amministratori locali vuol dire implementare la coordinazione e la cooperazione: i sindaci devono lavorare insieme e affrontare le crisi in modo coeso. Bisogna inoltre che ci sia scambio fra comuni piccoli e grandi. Gli economisti, ci dice, parlano di “nuova dimensione metromontana”, cioè di uno scenario dove i territori rurali trovano dialogo con le aree urbane. Nel panorama italiano la creazione di questa interdipendenza ha la capacità di generare valore.
Noi viviamo lo spopolamento delle aree urbane. Le persone si spostano perché si sentono insicure nei paesi, per mancanza di opportunità per i più giovani, per non avere a disposizione gli asili nidi, per non ricevere le cure adeguate.
Ecco come in questo panorama una figura come quella dell’infermiere di comunità è importante, perché ne rappresenterebbe un punto di riferimento essenziale. E più in generale, dice Bussone, dovremmo riflettere sulla comunità intesa come un insieme di competenze, di professionalità messe al servizio di altri.
Il tema della medicina è altresì centrale per l’associazione, ma parlare di medicina di comunità o di telemedicina/teleassistenza è ancora un restare nel teorico, non ancora una prospettiva concreta. Le parole che stiamo usando per descrivere il cambiamento non si sono ancora declinate in politica, in fatto, per cui è necessario lavorare in questo senso.
Ci sono molti aspetti da migliorare e su cui riflettere, dall’unificazione dei dati sanitari, dice Bussone, che dovrebbero essere gestiti su scala nazionale e non regionale, alla costruzione delle Case di Comunità, affinché però non rappresentino il rischio di eliminare l’assistenza dai territori rurali e di rimetterla nelle mani di altre aree territoriali.
L’esperienza di Ivrea come Dementia Friendly Community ha rappresentato la creazione di un ecosistema dove la sanità dialoga con il sociale, dove le Università si muovono sul territorio, dove le amministrazioni sono consapevoli, ma soprattutto dove c’è spazio per la parola e per l’arte.
Proprio sulle parole ha riflettutto Stefano Serenthà, (Geriatra presso l’Università degli Studi di Milano) nel suo intervento “Un approccio rispettoso della persona con demenza”.
ha ricordato come la parola “rispetto” non sia sinonimo di non interventismo, di indifferenza o di tolleranza. Quando si ha a che fare con la persona con demenza non c’è nulla a che vedere con la buona educazione.
“Approccio alla persona”, inoltre, significa avvicinarsi, farsi prossimo a livello spaziale ed emotivo. Nella demenza l’approcciarsi è sempre un nuovo inizio, perché è sempre nuovo il modo in cui ci relazioniamo. Il rispetto, dice Serenthà, passa prima di tutto dallo sguardo. Uno sguardo rispettoso è ammirante, che nella sua derivazione etimologica implica con attenzione, stima, meraviglia, curiosità.
Ci ricorda Alberto Latorre, filosofo lombardo che ha fatto lavori sulla demenza che è partito dal concetto di “persona” nella sua derivazione latina, che vuol dire “maschera”, la quale a teatro non ha la funzione di nascondere, di coprire, ma quella di far meglio riconoscere l’attore. Il coro non porta maschere infatti, perché deve restare indistinto. Persona quindi vuol dire che avere identità, essere riconoscibile. Se la persona non si sente riconosciuta dagli altri, difficilmente riconoscerà se stessa in questo senso. E così accade nella demenza.
Ci ricorda poi che la demenza è un disturbo delle funzioni cognitive (memoria, linguaggio, prassia) e che tutte le altre manifestazioni non sono sintomi della demenza. Questo vuol dire che i disturbi del comportamento non sono disturbi della demenza, ma di altro tipo. Nascono dall’interazione fra i disturbi cognitivi e l’ambiente, quindi è importante separare ciò che è cognitivo da ciò che non lo è, perché sui primi non possiamo farci nulla, ma sugli altri abbiamo margine di intervento e dobbiamo fare qualcosa. “Accogliere”, quindi, vuol dire prendere seriamente in considerazione tutta la persona, anche i suoi rifiuti, vuol dire saper guardare, prima ancora di agire.
Nella demenza e nell’accoglienza alla fragilità lo “sguardo” – inteso come la capacità di soffermarsi e di contemplare unendo emozioni e razionalità – assume un’importanza centrale. Ne è consapevole Daniela Magnetti (Storica dell’arte e Direttore Artistico Banca Patrimoni Sella & C.) che al convegno ci ha parlato della funzione dell’arte nella comunicazione con le persone con demenza.
Ci ha raccontato l’esperienza che ha avuto nei luoghi di cura a partire dagli allestimenti realizzati nei reparti Covid di Torino. Un’esperienza nata da una specifica richiesta dei medici: bisognava ricostruire una relazione fra il personale e i pazienti e ritrovare un linguaggio emozionale che la pandemia aveva spazzato via, in luogo di uno freddo, medicale, allarmante.
“Possiamo provare a portare l’arte in questo luogo?”, si è chiesta Magnetti quando le è stato affidato l’incarico. “Non appena visto lo spazio di quei luoghi mi sono resa conto subito del senso che poteva avere l’arte in quei contesti. In quel luogo non c’erano finestre e non c’era luce, era un luogo artificiale che faceva perdere immediatamente il senso del tempo”. Così sono iniziati gli allestimenti dei corridoi su pareti di cartongesso adornate con opere chieste in prestito a dei collezionisti privati.
L’arte ha questo come obiettivo, dice Magnetti: far vibrare le corde dell’emotività e aiutare a costruire un nuovo linguaggio. Dopo le prime 48 ore nel Covid Hospital si è riscontrato infatti un ritorno del linguaggio: le persone hanno cominciato a parlare, a narrarsi. “Abbiamo portato questa idea anche nei centri vaccinali, che abbiamo allestito come vere e proprie mostre. Dove c’era l’arte le cose funzionavano meglio di altri centri e in più le persone uscivano da quei luoghi con un altro spirito”.
Quando sono arrivata a Ivrea ci siamo trovati ad avvicinare il mondo degli studenti e il mondo dell’Alzheimer che fruiva degli stessi spazi nei fine settimana. Abbiamo cercato di allestire con l’arte anche le pareti del polo Officina H. Gli studenti sono stati incuriositi dalla Medusa di Caravaggio che aveva su delle parole attaccate e hanno quindi iniziato a porsi delle domande.
Il corridoio “Corridoio Va.sa.ri” è nato proprio così. “Vasari” è acronimo di “valutazione sanitaria rispettosa”, perché ci siamo resi conto che l’arte poteva aiutare non solo a ritrovare un linguaggio emotivo ma anche a favorire la comunicazione sanitaria.
Così abbiamo iniziato a lavorare con “La piazzetta” usando opere del nostro territorio da usare per gli allestimenti. Per le persone, infatti, è più facile riconoscere le iconografie note che servono a stimolare una buona relazione con le persone che vengono qui.
Abbiamo provato a guardare un’opera d’arte e ad associare una parola per ogni lettera dell’alfabeto. Le 21 parole sulla testa della Medusa di Caravaggio sono quelle che avremmo voluto dire di fronte all’Alzheimer, anche quelle dure e crude che spesso non vengono dette o che si fa fatica a dire.
“Proprio durante la pandemia ho capito che l’arte deve spostarsi”, ci ha detto Magnetti. “Noi dobbiamo portare l’arte dentro i luoghi di cura non solo per abbellirli, ma per renderli luoghi di identità. Spesso quei luoghi trasmettono incuria, sono spazi considerati di nessuno dove tutti ci mettono tutto, tranne le cose che servono”.
Una delle cose principali che mancano è la comunicazione sanitaria adeguata. L’arte può essere un mezzo importante per strutturare questo bisogno comunicativo. L’arte è strumento relazionale e ne abbiamo un gran bisogno.